Trapattoni provoca l'Italia: "Per me Cassano è da Nazionale"

Conferenza in tre lingue del ct dell'Irlanda: «Sarà come Davide contro Golia»

«I’m the boss». Il capo è Giovanni Trapattoni, la scritta sulle t-shirt verdi che colorano via Sparano e dintorni. Obama o San Pancrazio, il Trap è la guida di una nazione che guarda al football con il sorriso di un tecnico italiano e lo paragona al presidente americano o un santo protettore. «Nella vita ci sono tre certezze come diceva un famoso filosofo. Si nasce, si muore e si cambia: io cambio», puntuale arriva la citazione di chi, a 70 anni, ha scelto di rimettersi in movimento. Trapattoni è accerchiato, quasi soffocato, perché il suo è un ritorno che fa notizia. Il filo che lega il Trap all’Italia è lungo una carriera se lui giura che «non sbaglierò l’inno perché mi emoziona anche quello irlandese». Moduli, uomini, scaramanzia: il condottiero con la bacheca più ricca continua a raccontare Italia-Irlanda come la sfida fra «Davide contro Golia» spiegando, però: «In carriera spesso mi sono trovato nelle vesti del più debole, ma alla fine ho vinto».

Tutto e il suo contrario, questo il copione recitato dal Trap, attento e calibrato nelle risposte per non apparire troppo italiano o troppo lontano dalla sua storia. Ma, quando in scena entra Cassano lascia da parte iperboli e giri di parole. «Se il pubblico dovesse fischiare l’Italia per noi non cambierebbe niente. Una nostra vittoria sarebbe un’impresa e, se anche dovesse accadere, gli azzurri finirebbero per qualificarsi lo stesso», sussurra il timoniere d’Irlanda. La tuta è quella sociale, il verde e il bianco si incrociano come le sfide di Trapattoni. Cassano è una presenza ingombrante, lo è stata fin dal giorno in cui Lippi ha disegnato la lista dei convocati per le tappa in Montenegro e per quella di stasera. Un’ombra che, ai tempi del Trap ct, si trasformò in magie ed applausi in campo. «Ho fatto debuttare Antonio in Nazionale, era giovane, doveva maturare. L’ho trattato come un figlio e lui mi ripagato: in Portogallo, nel 2004, mi ha dato tutto, lacrime e giocate. È un grande calciatore, lo sta dimostrando, ma le scelte degli altri allenatori vanno sempre rispettate», così Trapattoni.

Bari continua ad interrogarsi perché se c’è una maggioranza silenziosa pronta ad applaudire Lippi, c’è anche chi non smette di invitare il pubblico a presentarsi sulle tribune con la maglia di Cassano addosso. Lui, il Trap, tocca più volte ferro davanti al rumore degli applausi che lo attende all’ora di cena. «Dalle mie parti le mani si battono dopo le vittorie, non prima. Io sono credente e, quindi, non scaramantico, ma non si sa mai...», sorride Giuàn. L’Italia è la nazione dei processi, del calcio parlato, delle moviole ed anche del gioca spesso distante dallo show. «L’ho detto in passato e lo ripeto. Per lo spettacolo c’è il teatro, il calcio è un’altra storia: se vinci arrivano i tre punti, se giochi bene, ma perdi ti ritrovi con in mano solo i complimenti. Questo è quello che cerco di spiegare ai ragazzi, devono trovare il modo di essere squadra cosa che diventa difficile quando alleni giocatori che vivono all’estero. Il lavoro di Lippi nasce dal mio? In parte sì perché quando c’è un passaggio fra un allenatore e l’altro quanto fatto non viene cancellato: lui quella squadra l’ha poi cambiata, ma sono rimasti ragazzi come Grosso e Di Natale che ho fatto debuttare io», precisa Trapattoni. Il copione sta per finire. Il tecnico d’Irlanda si diverte a misurare le risposte con frasi in italiano ed inglese, ma i confini sono ben definiti. Unica eccezione, stavolta, il ricordo del famoso filosofo che divide la vita in tre fasi. «Si nasce, si muore, si cambia...», racconta il Trap come fece prima di Italia-Danimarca agli Europei del 2004. Stessa riflessione oggi come allora. Colpa dell’emozione?

fonte: lastampa
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